I segreti del Banco

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Mi chiamo banco, e sono qui da decenni, testimone silenzioso di generazioni che sono passate sopra di me. Ero giovane anch’io, quando mi hanno messo qui, in questa scuola che sembrava eterna. Ogni giorno, mi sento sollecitato dalle mani dei ragazzi che mi colpiscono, mi toccano, mi graffiano. Sono un banco di legno scuro, vecchio, ma ancora abbastanza forte da reggere i pesi di chi mi usa. La mia superficie รจ solcata da mille segni, incisioni, scarabocchi. Ogni graffio che mi solca รจ una storia che si scrive, un pensiero che rimane impresso.

Non sono solo un banco, sono anche una mappa. All’occorrenza divento custode di formule, di grafici che devono essere un enigma solo per i professori. Ogni generazione mi ha lasciato un suo pezzo: inizialmente erano solo nomi, per poi passare a cuori disegnati, a simboli di gruppi che si ribellavano a un sistema che non capivano. Li sentivo parlare durante le lezioni, sentivo le risate, le lamentele, le discussioni. Ero il punto di riferimento, il posto dove si appoggiavano libri, fogli di carta, zaini stracolmi di sogni. Ogni tanto, qualche ragazzo piรน distratto faceva cadere una penna, o lanciava il cancellino della lavagna. Io stavo lรฌ, in attesa, sempre pronto a ricevere i segreti di chi mi usava.

Mi ricordo di quei giorni in cui, durante le pause, sentivo voci concitate parlarsi sopra. I ragazzi, a volte, non sapevano che mi stavo riempiendo di loro. Le storie che mi scrivevano, i disegni che mi facevano, restavano impressi in me come cicatrici indimenticabili. “Marco + Giulia”, scrivevano con la matita, e poi, accanto, qualcuno aggiungeva โ€œma non durerร โ€. Le ragazze disegnavano cuori, e i ragazzi facevano frecce, spesso accompagnate da “speriamo che tutto vada bene”. E ogni tanto, qualcuno scriveva โ€œLibertร โ€, come se quella parola potesse davvero significare qualcosa in un mondo che sembrava sempre troppo grande per loro.

Mi ricordo anche di quando, per qualche ragione, c’era l’agitazione: le scuole occupate, i ragazzi che urlavano nei cortili, sventolando bandiere improvvisate. Li sentivo parlare di cambiamento, di un futuro che avrebbero dovuto costruire, mentre io, immobile, li guardavo lottare. E io stavo lรฌ, a sentirli, a vedere tutto senza poter fare nulla. Solo un testimone muto. Volevano una scuola diversa ma nulla รจ cambiato.

Sono rimasti i docenti di una volta. Piรน confusi dei ragazzi, burocrati, pronti a firmare tutto quello che arriva dall’alto per il loro tornaconto e il posto fisso per poi cercare di spiegare la libertร  di pensiero che in pratica sopprimono senza rendersene conto, indottrinando generazioni di anime.

Poi cโ€™era la bidella. Si che me la ricordo. Passava sempre tra i banchi con il suo straccio e il secchio, cercando di ripulire tutto. Ma lo sapevo, lo sapevamo tutti: niente si puรฒ davvero cancellare. I segni che lasciano i ragazzi su di me sono come cicatrici indelebili. Ha tentato inutilmente di levare quella incisione “colorita” sul Preside di allora ma niente. Giuro che non sono stato io a fare la spia. Ma quei giorni dove la classe รจ stata sospesa mi sono sentito un po’ colpevole. Ma tanti loro segreti non sono mai stati svelati. Qualche volta, dopo una festa, dopo che la scuola era vuota e silenziosa, vedevo ancora tracce di vita: una lattina dimenticata, un pezzo di carta, o magari un disegno fatto con la biro che raccontava di un amore, di un sogno, di un incontro.

E non importa quante volte venissi pulito, quante volte i ragazzi mi utilizzassero in fretta, io restavo lรฌ, con i segni di chi ero stato. Ho visto di tutto, dai ragazzi che cercavano di stare attenti a scuola a quelli che facevano le rivoluzioni, dalle chiacchiere spensierate delle ragazze ai sogni dei ragazzi piรน introversi. In me c’era un po’ di ognuno di loro.

Non lo sanno, ma io non sono solo un banco. Sono la storia di chi mi ha usato. E, sebbene mi abbiano fatto diventare vecchio e consunto, sono ancora qui, pronto a raccontare.

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