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Ebbene si, sono tornato in questi giorni in quel Bar. Non l’ho cercato e nemmeno voluto. Diciamo che é capitato. Non era cambiato di una virgola. Stesso neon blu tremolante all’ingresso, stessa insegna mezza scrostata, stesso odore di caffè bruciato. Era lì da quando avevo diciott’anni. Forse anche da prima, ma era a quell’età che avevo cominciato a farci tappa fissa. Allora eravamo in dieci, a volte in quindici, a occupare metà sala con risate e sogni da conquistatori.

Ora dopo tanti anni mi ritrovo da solo in quel bar. Ma loro, i miei amici di allora mi sembra ancora di sentirli. Salvatore che se la prende perché i suoi litigano sempre e giura che scapperà da casa uno di questi giorni. Laura che non vuole diventare come sua mamma e sogna di andare a vivere da sola….e Lorenzo che non capisce piu’ niente se si parla di calcio perché é chiaro che diventerà il portiere del Grande Real. E quella gatta morta di Valentina indovinate? Ecco. Anche lei ha un padre che non sopporta e quindi odia tutti gli uomini.
“Stessa storia, stesso posto, stesso tavolo”, pensavo, mentre spingevo la porta a vetri per entrarvi.
Una folata di aria pesante, odore misto di birra e panini mi investì. La barista, mi lanciò un’occhiata rapida, quasi scocciata. “Desidera?”

Un caffé macchiato grazie! E mi sedetti al solito tavolo, quello vicino alla finestra. Da lì si vedeva il parcheggio e le auto che andavano e venivano, come i miei pensieri. La gente entrava, consumava, rideva un po’ e poi se ne andava. Qualcuno giocava a carte
Io rimanevo.

“Ma che faccio qui,” mi dissi.
Fuori, i fari di un’auto si accesero all’improvviso. Mi fissarono. Sembravano occhi, giudicanti, immobili. “Chi cerchi?” sembravano dire.
Chi o cosa stavo cercando? Mi domandai. Forse gli anni andati. Gli anni d’oro. Ma erano anni che non avevo nemmeno i soldi per un caffé ma ero felice. Anni dove viaggiavo “a scrocco” tanto che mi diedero il soprannome “sfroos” (uno che va di “sfroso”…).

Gli anni in cui il Milan sembrava invincibile, e ogni partita era un evento sacro da sfogliare il lunedì sulla “Gazzetta dello Sport”
Le battute che ripetevamo in gruppo per sembrare americani, anche se nessuno capiva del tutto cosa stessimo dicendo.

Gli anni in motorino, tassativamente in due e senza casco. Io e Salvatore, oppure io e Simona. Con il motorino di Salvatore o con il motorino di Simona. Non ho mai avuto un motorino tutto mio. Gli anni delle compagnie immense, delle estati che non finivano mai, delle serate in piazza e l’illusione che il mondo fosse piccolo.
“Che belli erano i film”, dicevo allora. Ma lo pensavo davvero. I film, come la vita, avevano ancora finali speranzosi.

Entrarono due volti che parevano familiari.
Una coppia. Mi immaginai di conoscerli. Mi salutarono. O mi immaginai anche quello. Sorrisi dentro di me. Notai subito le loro mani. Quelle dita che si intrecciavano, i loro sguardi tranquilli.
“Porco Giuda”, pensai, “potrei essere io molto tempo fa”.
In un universo parallelo, forse lo ero. Forse mi sto rivedendo …

Poi il bar si svuotò lentamente. Sicuramente le grandi discussioni che avrebbero cambiato il mondo potevano aspettare. Chi doveva andare al lavoro, chi a casa e chi doveva fare quella commissione inderogabile.
Restava solo il rumore dei bicchieri, la musica soffusa alla radio, e una figura seduta davanti a me, al tavolo di fronte. Non l’avevo notata entrare. Una donna, con occhi familiari ma stanchi. I capelli raccolti in una coda disordinata ma carina nella sua semplicità.

Ci guardiamo. Forse un po’ troppo.
“Cosa vuoi?”, disse lei, con voce neutra. Io non mi aspettavo quella domanda.
“Non lo so”, risposi. “Non volevo sembrare maleducato … I miei pensieri … Le chiedo scusa”
E mentre dicevo questo si mise a ridere.

Il tempo passa per tutti. Nessuno ci riporterà indietro. Nemmeno noi.
Ma in quel momento, in quell’attimo sospeso qualcosa accadde. Come se il destino stava aspettando una mia mossa per prendere una strada.

Forse erano solo i ricordi che si sedevano con noi.
Rivedevo il motorino, le corse d’estate, i jeans, la gonna di Simona, le frasi come “qualsiasi cosa fai, tranquilla, io sono qui” non erano solo parole, ma promesse. Promesse mantenute a volte non restituite. Cose che adesso non si usano piu’….vengono dette solo bugie. Quante bugie ho sentito nascoste tra false amicizie ed opportunità negli ultimi anni. Quanti “ti voglio bene” trasformarsi in indifferenza….

E in quel bar, nel silenzio condiviso con una sconosciuta, sentii una cosa che avevo dimenticato da tempo:
Gli anni d’oro non erano finiti.
Erano solo tornati a farsi sentire. In silenzio, ma vivi. Solo che adesso i soldi ce li avevo ma, non ero felice e si vedeva. Il mio sorriso era solo una smorfia per la troppa luce che entrava dalla finestra. Con i soldi non si compra la felicità.

Uscimmo insieme, senza una parola.
Non avevo risposte, ma per la prima volta dopo tanto, non cercavo più domande.
Ci salutammo senza chiederci i nostri nomi, tanto sapevamo che non ci saremmo piu’ visti perché entrambi in quel bar ci eravamo tornati (e incontrati) in un tempo che non ci apparteneva.